BRIXIA A TEATRO

Lo spettacolo nel mondo romano in riferimento alle evidenze archeologiche bresciane: il Teatro.

 

La trasformazione di Brescia in una vera e propria città ha di fatto origine solo in seguito all'espansione romana a nord del Po, nei territori della Gallia Cisalpina. L'antico borgo dei Galli Cenomani acquisisce nell? 89 a.c. (con la Lex Pompeia) la cittadinanza di diritto latino e si organizza in modo sempre più regolare ai piedi del colle Cidneo... 

 

Brixia a Teatro. Lo spettacolo nel mondo romano in riferimento alle evidenze archeologiche bresciane: il Teatro. 

   

  Lo Spettacolo nel mondo romano in riferimento alle evidenze archeologiche bresciane: Il Teatro. 

La trasformazione di Brescia in una vera e propria città ha di fatto origine solo in seguito  all'espansione romana a nord del Po, nei territori della Gallia Cisalpina. L'antico borgo dei Galli Cenomani acquisisce nell' 89 a.c. (con la Lex Pompeia) la cittadinanza di diritto latino e si organizza in modo sempre più regolare ai piedi del colle Cidneo secondo i criteri tipici delle città romane, con strade regolari, edifici in muratura e un Foro, cuore della vita pubblica. 

Nel 49 a.C., in seguito alla promulgazione delle leggi Iulia e Roscia, Brixia penta municipium, per essere poi insignita del titolo di Colonia Civica Augusta dopo il 27 a.C. Da allora la città conosce uno sviluppo sempre più rapido, testimoniato tra l'altro anche dalla presenza, in età tardo repubblicana ed imperiale, di perse domus riccamente ornate, di un acquedotto e di una regolare cinta muraria.  Tale sviluppo attraversa forse il suo momento più significativo sotto la dinastia Flavia (69-96 d.C.), alla quale la città appare legata fin dal tempo  delle guerre civili che accompagnarono e seguirono la fine del principato neroniano. Fu Vespasiano, infatti, che volle la ricostruzione del Tempio Capitolino, inserito in un grandioso complesso scenografico di ispirazione ellenistica comprendente, oltre al Tempio, La Curia o Basilica, l'ampio Foro porticato e il Teatro.

Proprio il teatro, in particolare, riveste un ruolo di rilievo nella comprensione di quanto profonda fosse l'avvenuta romanizzazione di Brescia e del suo territorio. E' lungo l'elenco dei centri, grandi e piccoli, in Italia e altrove, che conservano tuttora i resti di un edificio teatrale romano, che appare spesso segno esteriore non solo della prosperità, ma anche e soprattutto dell'importanza e dell'autonomia amministrativa delle varie comunità. I teatri di Concordia, Gubbio, Fiesole, Bene Vegienna o quelli di Orange, Leptis Magna o Sabratha (per citarne solo alcuni) consentono agli studiosi e al semplice appassionato di farsi un idea precisa della realtà strutturale ed architettonica di un teatro romano, della sua evoluzione nel tempo e di come di volta in volta andasse ad inserirsi nello schema urbanistico di un centro abitato e, di conseguenza, nella sua vita pubblica.

In un area che, nel corso dei secoli, era andata ricoprendosi di edifici di varia natura, ma la cui originaria funzione non si era mai del tutto persa nella memoria collettiva, le campagne di scavo (iniziate nel 1913) hanno riportato alla luce a Brescia i resti di un teatro che, per dimensioni e ricchezza, merita senz' altro di essere annoverato tra i più grandi dell'antica Cisalpina, dopo quelli di Verona, Milano e Pola. Con un diametro massimo di 86 metri, un frontescena di 48 metri ed un altezza di circa 24 metri, l'edificio doveva avere infatti una capienza considerevole, stimata attorno ai 15.000 spettatori. Per un rapido confronto, basti dire in proposito che alcuni celebri teatri moderni, come il San Carlo di Napoli, la Scala di Milano o l?Opera di Parigi, hanno una capienza che oscilla fra i 2.000 e i 3.500 posti.

La stessa posizione del teatro bresciano risulta particolare. Addossato alle pendici del Cidneo, con la cavea parzialmente ricavata dal pendio naturale, esso segue chiaramente il modello architettonico dei teatri greci. Una simile soluzione, per la verità non rara in ambiente romano, come dimostra anche il caso analogo di Cividate Camuno, se da un lato rivela l'elasticità e il senso pratico dei costruttori, capaci all'occorrenza di staccarsi  dalla concezione tipica del teatro romano, edificato interamente su apposite costruzioni in muratura sfruttando archi e volte,  dall'altro va a completare quell'impostazione scenografica del complesso Foro-Tempio cui si è fatto precedentemente cenno e resa evidente anche dal fatto che le strutture del teatro vanno a congiungersi, e in parte perfino a sovrapporsi, con quelle dell'area templare. Ancora molti sono in effetti i problemi irrisolti che ostacolano una definitiva e completa comprensione di quello che doveva essere l'aspetto originario del complesso. Tra questi i più rilevanti possono essere indicati nella ricostruzione attendibile della cronologia delle perse fasi costruttive (le strutture oggi visibili sembrano attribuibili soprattutto all'età Flavia, con ampliamenti successivi di età Severiana), nelle precise dimensioni di settori ancora da esaminare e nella reale funzione della cosiddetta 'aula a pilastrini', collocata tra il teatro ed il tempio e risalente forse al tempo di Ottaviano Augusto. Nonostante questi e altri problemi, comunque, è possibile inpiduare nell'edificio bresciano tutti gli elementi costitutivi tipici di un teatro romano, quali andarono definendosi a partire dal 55 a.C., anno in cui a Roma venne inaugurato il teatro di Pompeo, il primo completamente in muratura autorizzato dal Senato entro i territori della Repubblica. In buona parte scavata, come s'è detto, direttamente nel fianco del colle e destinata ad ospitare i posti per il pubblico era la cavea, la cui parte inferiore (ima cavea) è ancora interrata, ma nella quale si distinguono alcune gradinate, parte dei muri radiali e parte dei settori intermedi (media cavea) e superiori (summa cavea), questi ultimi retti da una galleria anulare parzialmente conservata. In evidenza sono anche la parte inferiore del frontescena, con le tre nicchie ad andamento curvilineo che segnano la posizione delle antiche porte sceniche ( le valvae regiae al centro e le hospitalia laterali), e l' iposcenio, nel quale sono ancora collocate le pietre forate destinate alle strutture che dovevano reggere il sipario. Gli scavi hanno inoltre riportato alla luce l' aditus in scaenam occidentale e parti delle parodoi occidentale e orientale, nonché una delle scalinate di accesso alla cavea e numerosi frammenti marmorei appartenenti alle varie parti delle strutture originarie. Del tutto perse, allo stato attuale, appaiono invece la scena e gli ambienti situati alle spalle di questa, fino al prospetto che doveva affacciarsi sul decumano massimo, oggi via dei Musei.

Ma a parte gli aspetti architettonici, quale era nel concreto la vita che si svolgeva intorno a questi teatri? Quale era la realtà di una spettacolo del mondo romano? La risposta a queste domande non è certamente facile e le opinioni degli studiosi, anche riguardo alcune questioni fondamentali, sono tutt'altro che uniformi, nonostante la ricchezza di informazioni che le fonti antiche ci trasmettono. E' in un famoso passo di Tito Livio l'affermazione che gli spettacoli pubblici furono inaugurati in Roma in occasione dei Ludi Romani del 364 a.C., con artisti fatti venire appositamente dall' Etruria. Non è possibile dire con certezza di che tipo di spettacoli  si trattasse (musiche, danze o altro), ma è sicuro che a cominciare da allora andò sempre più affermandosi in Roma l'uso di organizzare degli spettacoli destinati all'intrattenimento popolare e allestiti nel corso di festività religiose o civili. All'affermazione di una tradizione teatrale romana e alla sua progressiva evoluzione non si accompagnò però un adeguato sviluppo architettonico di spazi specifici per simili manifestazioni, che fino alla metà del I secolo a.C. continuarono a svolgersi in strutture provvisorie in legno o ricavate da spazi destinati ad altro uso, come le gradinate dei templi o quelle del circo. La tarpa accettazione da parte delle autorità dell'idea di erigere edifici teatrali in muratura, attribuibile alla diffidenza verso le occasioni di pubbliche assemblee, si spiega anche con la scarsa considerazione in cui a Roma, a differenza di quanto avveniva nel mondo greco,  era generalmente tenuto il mondo dello spettacolo, nonostante la grande fama di autori come Plauto o Terenzio o di attori di grido come Esopo, Rupino o Roscio, ricordati da Cicerone o da altre fonti. Gli attori erano riuniti in compagnie, significativamente indicate coi nomi di catervae o greges, ed erano considerati come un soggetto giuridico collettivo, privi di dignità inpiduale e di alcuni diritti civili, come quelli inerenti varie forme di eredità o l?accesso a pubblici uffici: erano ritenuti, di fatto, proprietà privata dell?impresario-regista (dominus gregis) che li scritturava. Essi si trovavano quindi a vivere in una condizione sociale veramente umiliante, seguiti peraltro da giudizi altrettanto negativi sulla loro moralità. Questo spiega ampiamente come mai, tolte poche eccezioni, il mondo del teatro fosse popolato soprattutto da schiavi e liberti, ai quali, come sopra ricordato, non erano tuttavia precluse fama e ricchezze, con le conseguenti possibilità di elevazione sociale. Ma, come è logico aspettarsi, in uno spettacolo teatrale, non entravano in gioco solo gli attori (non più di cinque o sei per compagnia), ma anche un gran numero di personaggi, chiamati a ricoprire differenti e specifiche funzioni: dai musici alle comparse, dai lavoranti ai tecnici, ai costumisti. Mai, però, una compagnia poteva includere delle donne, alle quali la scena era consentita solo nel caso di spettacoli di mimo, proprio per questo giudicati particolarmente immorali e licenziosi e non a caso rimasti il tipo di rappresentazione più popolare per tutta l'età imperiale.

La mancanza di attrici e la conseguente assegnazione agli uomini anche delle parti femminili ripropone la questione relativa all'uso o meno di maschere sceniche, questione tuttora molto dibattuta dagli studiosi. Senza inoltrarci ora in un problema estremamente complesso e specialistico, basti qui ricordare che dalle ipotesi più estreme, volte a negare del tutto l'uso effettivo di maschere o, al contrario, a darlo per scontato per tutta la storia della drammaturgia latina, si è passati oggi ad ammettere l'uso di maschere da parte degli attori almeno a partire da Terenzio, (II sec. a.C.), lasciando aperta la discussione per le età precedenti. In ogni caso le maschere, realizzate in stoffa, legno o terracotta, erano concepite secondo criteri precisi e costanti, dovendo consentire al pubblico di riconoscere all'istante il personaggio chiamato ad agire. C'erano così innanzitutto maschere 'comiche' e maschere 'tragiche', maschere da vecchio o da 'giovane innamorato', da cortigiana o da servo scaltro e così via, in accordo al repertorio di caratteri modellato in buona parte sulla tradizione greca e pentato costante anche in quella romana.

Certamente in vario modo collegate all'uso delle maschere erano le numerose convenzioni che regolavano la scelta dei costumi scenici, altro fondamentale strumento di comunicazione immediata, visiva, col pubblico. Dalle calzature (alti cothurni per la tragedia; bassi sandali, i socci, per la commedia), alle tuniche, ai mantelli, ai copricapo, tutto rispondeva a precise tradizioni, dalle quali era probabilmente difficile distaccarsi senza urtare la suscettibilità degli spettatori. E' per questo, ad esempio,  che vecchi e sacerdotesse dovevano sempre vestire di bianco, i giovani indossavano abiti variopinti e le  cortigiane tuniche color zafferano ( è interessante notare come questo elemento sia poi restato a lungo nella tradizione europea, specialmente in relazione all?iconografia della Maddalena), mentre gli schiavi si vestivano invariabilmente con abiti corti e parrucche rosso vivo. Si trattava in genere di indumenti semplici, ispirati nelle linee essenziali a quelli di tutti i giorni, poco costosi e talora neppure di proprietà della compagnia, da affittati da un choragus, così come i vari oggetti che potevano servire a caratterizzare meglio i protagonisti delle opere rappresentate.

E' in ogni caso da ritenersi sicuro che tutto ciò che componeva l'abito di un attore variava a seconda del tipo di spettacolo proposto. Esisteva infatti una vasta gamma di 'generi' teatrali, alcuni dei quali destinati ad avere breve fortuna, altri, al contrario, sempre molto seguiti dal pubblico. Ispirate dalla grande cultura greca, ma arricchite da elementi dettati dalla tradizione e dal gusto tipicamente romano-italico, erano le tragedie e le commedie, genericamente indicate col termine fabula (intreccio, azione scenica) e con un aggettivo indicativo del tipo di abbigliamento  caratterizzante i personaggi. Le tragedie si distinguevano quindi in cothurnatae o in praetextae in base al loro argomento: mitologico e greco nel primo caso, ispirato alla storia romana nel secondo, con attori rivestiti della toga praetexta nazionale. Le commedie erano invece palliatae, di ambientazione greca, con personaggi che portavano il pallium, sorta di corto mantello, ed in togatae, di ambiente romano. E' soprattutto alla palliata che si deve la fama dei maestri del teatro latino, Plauto e Terenzio su tutti.

Tipicamente italica era invece l' atellana, farsa tradizionale caratterizzata da 'tipi' ricorrenti, come Boccus, il fanfarone, o Dossennus, furbo e malizioso. Legata ad un repertorio fisso, con spettacoli improvvisati su canovacci generici, l'atellana conobbe un momento di dignità letteraria nel corso di I sec. a.C. , coi testi di Pomponio e Novio, ma restò sempre un genere popolare e di modesto livello culturale.

Oltre ai già citati mimi, vanno poi ricordati gli spettacoli  di pantomima, forse i più amati in età imperiale,  in cui un danzatore mascherato si impegnava in scene mute, mentre un coro, un cantore o un attore recitante lo accompagnava descrivendo l'azione sulla base di libretti, ispirati per lo più a soggetti mitologici ed erotici.

A parte la drammaturgia, va del resto tenuto presente che il pubblico romano aveva ampie possibilità di scelta fra molti altri tipi di spettacolo, dalla danza alle esibizioni di funamboli e giocolieri, dalle gare di carri nel circo alle battaglie tra gladiatori.

Relativamente ben informati siamo anche sulle norme che regolavano  lo svolgimento di una rappresentazione. Al suono di un flauto, lo spettacolo aveva inizio. Un attore, talora lo stesso capo-comico/impresario, si presentava sul palco e recitava un prologo, fornendo agli spettatori informazioni sulla vicenda, sui suoi antefatti, sui personaggi o sulle motivazioni, e i criteri cui l'autore si era attenuto nel comporre l'opera. Ad un nuovo suono di flauto, il sipario (auleum) veniva alzato e compariva la scena, sempre organizzata sulla base di precise convenzioni. Tassativa era, ad esempio, l'ambientazione all'aperto: mai l'azione doveva svolgersi in un interno, pubblico o privato che fosse,  e in caso di necessità si ricorreva all?espediente della rhesis, racconto, per spiegare quanto si immaginava avvenuto entro le pareti domestiche. La scenografia era solitamente rappresentata da abitazioni, con porte praticabili,  che si fingevano affacciate su una via o su una piazza.  Convenzionali erano anche le direzioni di entrata-uscita degli attori: a destra era sottintesa la direzione del foro ( il che, forse non a caso, a Brescia veniva a corrispondere con la realtà), mentre a sinistra si andava fuori città, in genere in campagna o verso il porto. Ancora argomento di discussione sono l'eventuale originaria sudpisione in atti dei testi rappresentati e l'effettivo aspetto della scenografia, che certamente si fece via via più lussuosa e complessa, al punto che alcuni studiosi vedono nei fastosi affreschi pompeiani una possibile eco proprio delle quinte teatrali. Testimoniata da alcune fonti, ma molto dubbia, è infine l'esistenza di fondali mobili in legno, montati su prismi rotanti a varie facce, di volta in volta coperte o scoperte da appositi drappi (siparium) in rapporto alle esigenze.

Particolarmente veritiera, se applicata alla realtà romana, è l'affermazione che 'vero protagonista è il pubblico'. Più volte, infatti, le fonti latine ci testimoniano delle difficoltà che autori ed attori dovevano affrontare al momento di mettere in scena uno spettacolo. Numeroso, vociante, nel complesso rozzo ed in cerca di facili occasioni di pertimento, il pubblico che affollava le gradinate di un teatro romano costituiva con la sua stessa presenza un serio ostacolo alla regolarità di una rappresentazione, nella quale interferiva spesso con battute e commenti salaci, quando addirittura non abbandonava in massa lo spettacolo per correre ad assistere, come accadde nel corso di una commedia terenziana (Hecyra), alle prove di alcuni giocolieri. Ammessi gratuitamente a qualsiasi spettacolo, indipendentemente da sesso, condizione sociale e origine, gli spettatori affluivano ai loro posti senza particolari controlli, cosa che ovviamente favoriva non poco la confusione e le occasioni di distrazione, come del resto ci mostrano alcuni espliciti riferimenti in proposito contenuti nei testi di Plauto. Come è facile intuire, però, esistevano posti riservati alle personalità più influenti, abitudine che, stando a quanto dice Tito Livio, cominciò a diffondersi già all'epoca dei Tarquini, quando ancora non esistevano impianti stabili. Senatori e ospiti di riguardo avevano diritto a sedili collocati nelle prime file e nell' orchestra che, persa la funzione di spazio per le evoluzioni del coro che aveva nel mondo greco, era praticamente utilizzata solo a questo scopo. Dal 67 a.C. tale diritto fu esteso anche all'ordine equestre. Il grosso del pubblico sedeva nei vari ordini della cavea, cui accedeva tramite appositi sistemi di corridoi e scalinate, che sfociavano nei vomitoria, aperture attraverso le quali ci si immetteva nelle gradinate, in corrispondenza dei settori (cunei) in cui queste erano sudpise.

Ancora ignote sono le circostanze che videro il degrado del teatro romano di Brescia, cominciato, si pensa, nel VI sec. d.C., quando un terremoto che colpì la città dovette provocare il crollo delle strutture della scena e del frontescena. Un ruolo di certo rilevante devono aver avuto  in proposito le invasioni (Unni, Longobardi) ed i relativi eventi bellici, ma è significativo rilevare come documenti comunali del 1173 parlino di riunioni tenute in teathro civitatis, segno delle persistenza di una funzione pubblica del luogo a distanza di secoli, quando di certo esso non era più utilizzato per alcun tipo di spettacolo.

Resta comunque aperta, per la Brixia romana, una questione di carattere squisitamente archeologico: esistevano in città altri edifici adibiti a pubblici intrattenimenti? Epigrafi rinvenute in città, nelle quali si parla di un reziario e di un mirmillone, qualifiche relative al mondo dei gladiatori, e rilievi funerari con scene riconducibili ai giochi dell'arena, hanno fatto pensare che anche Brescia, come Verona, Milano o altri importanti centri delle province, avesse un proprio anfiteatro, il cui degrado deve essere stato ancora più completo, al punto che oggi non ne resta alcuna traccia evidente. La posizione di questo ipotetico anfiteatro potrebbe essere localizzata, secondo le osservazioni di F. Ribecchi, nell'area delle attuali Piazza della Loggia/Piazza Rovetta, dove fotografie dei primi anni del secolo testimoniano l'andamento semicircolare di alcune case, oggi scomparse, che sorgevano direttamente a nord del palazzo del comune. Tale ipotesi troverebbe inoltre conferma anche in una serie di considerazioni di carattere urbanistico, dalla posizione esterna alla cinta muraria romana alla vicinanza con la porta urbica che si apriva sulla strada per Milano (oggi Porta Bruciata). Ormai del tutto priva di fondamento appare invece l'ipotesi dell'esistenza di un circo nell'area compresa tra Corso Magenta e via Tosio, ipotesi connessa a tradizioni locali non più rintracciabili e ripresa da O. Rossi nelle sue celebri 'Memorie Bresciane'. Recenti scavi nell'area interessata sembrano infatti dimostrare in via definitiva la presenza in zona di edifici adibiti a funzioni del tutto perse e non riconducibili in alcun modo alla sfera del pubblico intrattenimento. Sostegno plausibile sembra invece avere la tradizione, ripresa da O. Rossi nelle sue 'Memorie Bresciane', dell'esistenza in città di un circo, da lui collocato in via ipotetica in un area compresa tra Corso Magenta e Spalti S. Marco.                                   

 

Giovanni Bormioli

 

La relazione è una libera trascrizione, non sottoposta alla revisione del relatore, della conferenza registrata dal vivo presso il Piccolo Teatro comunale, nell'ambito delle attività culturali promosse dalla Amministrazione Civica in collaborazione con il Museo Civico di Manerbio e il Gruppo Storico Archeologico.

 

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Ultima modifica: Mar, 07/07/2015 - 10:06