Una bambina senza stella - Manerbio incontra Silvia Vegetti Finzi

Sabato, 5 Maggio, 2018
vegetti finzi manerbio

Grazie alla generosa disponibilità della dottoressa Francesca Nodari, presidente della Fondazione Filosofi lungo l'Oglio, sabato 5 maggio la professoressa Silvia Vegetti Finzi, insegnante di psicologia dinamica presso l'Università di Pavia, incontrerà la cittadinanza.

L'incontro promosso dal comune di Manerbio, l'A.N.P.I., l'Associazione Amici Biblioteca di Manerbio, l'Istituto Studi Locali e l'Istituto di Istruzione Superiore Statale Pascal  sarà un momento di grande emozione per tutte le compagne di classe che negli anni della guerra hanno frequentato la scuola elementare di Manerbio.

Alle ore 17 nel salone di rappresentanza del municipio l'Istituto Professionale Alberghiero C.F.P. Canossa di Bagnolo Mella offrirà un momento conviviale per le ex alunne ed i loro famigliari, mentre dalle ore 18 presso il teatro civico Memo Bortolozzi la prof.sa Silvia Vegetti Finzi  ripercorrerà i tratti perduti della sua infanzia presentanto il suo libro: "Una bambina senza stella".

Per info: Biblioteca di Manerbio | 030 9387292 email: biblioteca@comune.manerbio.bs.it

 

Testo tratto dall'articolo "La memoria del silenzio" pubblicato in "Pedagogia.it" del 13 luglio 2016.

Quando quella che chiamiamo ormai incongruamente “l’ultima guerra” finì, avevo sette anni. Ma tante cose erano accadute prima di cui nessuno mi aveva parlato e che avrei scoperto poi piano piano, quasi per caso, sistemando i tasselli di un mosaico sepolto sotto la sabbia dell’oblio.

Come sapete mi chiamo Finzi e sono nata nell’ottobre del 1938, proprio nei giorni in cui venivano promulgate le “Leggi razziali”, editti restrittivi che apparentemente sembravano non riguardare una neonata, figlia di padre ebreo e di madre cattolica  che di suo non aveva nulla  da perdere.

Tuttavia mio padre fu costretto a rientrare in fretta e furia in Africa, ad Adis Abeba, dove lavorava come ingegnere telegrafico, per evitare che gli ritirassero il passaporto mentre mia madre e mio fratello, per la stessa ragione, lo seguirono venti giorni dopo su un’altra nave.
Rimasi così affidata  a una  famiglia di parenti, composta da due nuclei familiari e da più generazioni, che viveva in un piccolo paese del mantovano, Villimpenta. Ignara degli eventi che stavano squassando il mondo, crebbi aspettando che il papà, la mamma e il fratellino tornassero a prendermi appena fosse finita la guerra. Sentendomi amata da tutti, benché figlia di nessuno di loro,  non credo di essermi mai interrogata sulla mia situazione, di essermi chiesta perché la mia famiglia fosse così diversa dalle altre.

Per ogni bambino il suo mondo è evidentemente l’unico possibile.

Tutto precipitò all’improvviso nel momento (l’estate del ‘43) in cui mia madre tornò senza preavviso a riprendermi, spezzando così la continuità dell’esperienza e il filo della memoria, della mia memoria d’infanzia.

Con mio fratello, che aveva allora otto anni, ci trasferimmo a Manerbio, un paese del bresciano, che accolse quegli strani “furester”, con diffidenza e ostilità. Mentre tentavamo un difficile inserimento, accadevano ogni giorno una molteplicità di avvenimenti paurosi: allarmi aerei, bombardamenti, profughi in fuga e improvvise sparizioni. Ma per noi bambini non c’erano né parole né ascolto. Nella nostra esperienza solo immagini sporadiche, frammenti di suoni, rumori, odori. Difficili da decifrare, impossibili da comprendere. E, nella nostra memoria, quanto di quel pulviscolo e come si sarà sedimentato?

Verso la fine del conflitto, gli  adulti, ignorando noi bambini,  discutevano tra di loro con aria circospetta come se l’avviso “Qui non si parla di politica!”, affisso nei locali pubblici, valesse anche in casa propria, in cucina, dove si radunavano la sera per ascoltare “Radio Londra”.
Nel frattempo i più piccoli erano bruscamente spediti fuori, a giocare sulle scale mal illuminate e sui pianerottoli gelidi.

Dalla porta giungevano soffocate voci concitate, esclamazioni, improperi, gesti di stizza, sospiri di rassegnazione e di speranza. Ora so che l’ascolto di quei bollettini contrapponeva mio zio, fascista speranzoso nelle mitiche V2, e mia madre, in spasmodica attesa che il regime cadesse per sottrarre i figli alla deportazione, prevista dal governo della vicina Repubblica di Salò anche per chi avesse un solo genitore di “razza ebraica”.

Potrei forse raccontarvi di più e meglio di una biografia che non ha nulla di particolare  o di eccezionale, se non  un silenzio più pesante, un maggior prevalere, rispetto ad altre,  del non detto  sulle parole.

 

Data: 05/05/2018 Ultima modifica: Gio, 03/05/2018 - 10:56